Paolo Mancini

 
Nasce a Empoli, in provincia di Firenze, il 17 Gennaio 1963.
Si laurea presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze.
Consegue presso l’ateneo fiorentino il dottorato in Disegno dell’ambiente e dei monumenti, X° ciclo.
Ha svolto la professione di architetto dal 1992 al 2010 con importanti incarichi pubblici e privati.
Vive e lavora a Parma dal 1995.
Ha insegnato materie del disegno presso varie facoltà di Architettura (Firenze, Parma, Politecnico di Milano - facoltà di architettura, sede di Milano e Mantova, Politecnico di Milano).
Attualmente è docente incaricato di Strumenti e Tecniche del disegno presso la facoltà di Design al Politecnico di Milano e docente di Arte e Immagine e Storia dell’arte - Disegno Geometrico presso la Scuola Superiore di Primo e Secondo Grado dell’Istituto S. Benedetto a Parma.
Ha coltivato e educato l’amore per il disegno ed il colore a Firenze.
Dal 2005 inizia ad esporre in alcune gallerie della città di Parma, Pisa, Montecatini, Forte dei Marmi, Kirov, S. Pietroburgo e Asola.
Il tema a cui continuamente ritorna nei suoi disegni e quadri è il paesaggio rurale e fluviale.
I suoi quadri hanno trovato casa in Toscana, Emilia, Lombardia, Germania, Russia e Francia.

Per capire Paolo Mancini e la sua pittura bisogna salire a Neviano degli Arduini, 500 metri di altezza, appennini sopra Parma. Oppure percorrere le sponde del fiume Po, quelle che dividono la bassa Lombarda dall’Emilia, sponde che furono di Guareschi e Zavattini e dei grandi narratori emiliani. Sponde che videro la fuga tedesca e la liberazione angloamericana, popolazioni disperate per la rottura degli argini di un fiume che, impassibile al mondo, continua il suo lento percorso verso il mare.
A Neviano lo sguardo si può distendere tra le linee dolci delle colline, un po' come doveva accarere per lo sguardo di Giorgio Morandi quando si rifugiava a Grizzana, stessi appennini, una sessantina di chilometri più in giù. Paolo Mancini, toscano, empolese di nascita, emiliano e padano di adozione, si è scoperto pittore da queste parti. Lui stesso cita il nome di questo paese appartato con un po' di pudore, come se si trattasse di condividere un segreto molto intimo. Mancini oggi abita, dipinge e insegna a Parma. E nella lenta, profonda metabolizzazione del suo destino di pittore che viene dall’architettura (laureato a Firenze), il paesaggio che lo circonda non è mai stato un elemento secondario. A Neviano poi Mancini ha potuto imbattersi in un quasi provvidenziale incrocio proprio tra paesaggio e architettura. Un’architettura talmente innestata nel paesaggio da farsi idealmente unità e da rappresentare nella sua biografia un passaggio di mano: dal costruire con pietre al costruire con le linee e i colori sulla tela. Il riferimento è alla bellissima pieve romanica di Santa Maria Assunta gloria artistica per Neviano (è un monumento nazionale): un aggregato dolce e potente di pietre depositate secondo un ordine semplice e misterioso nella frescura di un bosco. Poco distante, in frazione Scurano, un’altra pieve alza una facciata dalle forme che non possono non aver segnato l’occhio di Mancini: una facciata larga, di un romanico improvvisamente addolcito, con gli spioventi del tetto che sembrano voler seguire le linee morbide delle colline.
È lì che. Proseguendo in questo percorso di libertà immaginativa, lo sguardo dell’architetto è confluito con molta naturalezza in quello del pittore. Punto di contatto tra le due identità è infatti la ricerca paziente e ostinata delle geometrie delle forme. Una vocazione a intercettare e ricomporre l’ordine che sta all’origine delle cose. Così per Mancini la pittura si è trasformata in un percorso paziente per fare, come lui dice “un’immagine nuova dentro un percorso antico”. È un cammino sul bordo di un limite, in cui la figurazione non può essere persa ma non deve diventare uno schema. O, come lui dice, “non deve prendere un aspetto troppo reale”. Ecco allora che il lavoro consiste nel non farsi prendere in trappola dai dettagli. “La macchia diventa lo strumento per essere fedele alle cose, per renderne le linee, senza cadere nella pedanteria”, racconta Mancini. Tra i suoi referenti cita anche un grande fotografo: Luigi Ghirri. Un poeta della pianura, che con il suo obiettivo ha narrato un paesaggio umano, sempre sfuggendo da ogni descrittivismo. La fotografia di Ghirri, infatti, sembra aver fatto di una delle componenti atmosferiche del paesaggio padano, la nebbia, un filtro per lo sguardo. La realtà resta attutita nel suo impatto, meno descritta ma più profonda. È una lezione che Mancini ha assimilato, mostrando quasi una sorta di devozione verso quel grande fotografo che ha segnato lo sguardo di tanti.
Per Mancini questo approccio è originato anche da una vocazione istintiva al rispetto nei confronti di tutto ciò che, essendo stato creato, viene vissuto come un dono. La sua pittura, perciò, è piena di pudore; pittura che non si impone ma che sembra quasi lievitare da dentro la tela.
(Testo estratto da Arbiter, Agosto 2016, scritto di Giuseppe Frangi)


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